NAVE N° 76
A bordo tre uomini, dotati di un grande spirto d’avventura e di una buona dose di patriottismo: Orlando Grassoni di Ancona, il cilentano Pietro Troccoli di Marina di Camerota e il capitano, il vero motore dell’impresa: Vincenzo Fondacaro di Bagnara Calabra. Capitano di vascello per la marina mercantile inglese, Fondacaro mal sopportava la scarsa considerazione di cui godeva la marineria italiana, ancor di più “punita” dalla disfatta di Lissa del 1866 ad opera degli austriaci. Occorreva dimostrare ai due mondi “che spento non è l’italico ardire“. Fondacaro, vincendo ostilità e diffidenze, riusci a reperire i fondi necessari per la costruzione della barca, 20mila lire per dare forma al battello che, scriverà: “È costruito in legno di cannella, algarrobo, noce, pino bianco d’America; la coperta è a doghe larghe un pollice e mezzo, alternate fra noce e pino, tutto inchiodato e foderato in rame, ed ornato in bronzo: insomma è fatto artisticamente col disegno di darlo a qualche museo navale d’Italia e non già per uso di mare“. Maestranze italiane, legni diversi, la baleniera si distingueva per la straordinaria fattura e per i geniali accorgimenti: due alberi abbattibili da 4.5 metri, la bussola notturna, l’ancora conica galleggiante. E poi raffinate decorazioni, come i corrimano in ottone della coperta, i fregi accanto al nome, l’asse del timone a forma di testa d’aquila. Non erano solo eccellenti caprentieri questi italiani, erano anche bravi intagliatori. La goletta era soprattutto un capolavoro d’ingegneria nautica, e rivoluzionario: fu la prima barca a poter navigare quasi completamente sottacqua grazie a quattro serbatoi d’aria collocati intorno alla chiglia, in breve attraversava l’onda senza saltarla, come fanno i pesci. Sottocoperta negli spazi angusti riservati all’equipaggio: galline vive, pane, vino, cibo e una gran quantità di olio, perchè il capitano Fondacaro lo riteneva il miglior rimedio contro le burrasche. Con un pratica mutuata dalle antiche baleniere, l’olio sparso in mare impediva il formarsi di frangenti e sul guscio di noce in pieno Oceano, ogni accorgimento doveva essere considerato. L’impresa, però, nonostante la passione di Fondacaro sembrava di quelle impossibili, ed anche la comunità italiana finì per non crederci, le scommesse pagavano la riuscita della traversata dieci a uno. La spada d’oro da consegnare a Garibaldi fu ritirata, l’album di firme poteva bastare. Il 3 ottobre del 1880 i tre partirono da Montevideo, da un porto gremito di curiosi d’ogni tipo, l’orgoglio mescolato al timore, quell’impresa sembrava una condanna a morte. Novantasei giorni in un azzurro infinito che può trasformarsi in un momento nel nero più cupo e come diversivo solo il suono di un’armonica a bocca, quando il tempo (quello meteorologico) lo permetteva. Lungo le 5mila miglia bufere e paura, balene che giocavano a grattarsi la schiena sotto il vascello, i pescecani, e i piroscafi che incrociavano la rotta della goletta, gente stupita si affacciava. A Natale cominciò l’ultima battaglia, i compagni mangiarono l’ultimo pezzo di baccalà rimasto in sentina, una manciata di giorni dopo la goletta arrivava al porto di Las Palmas (Canarie), fece poi rotta su Gibilterra e Malaga e successivamente, in giugno, attraccava a Livorno. In Italia i tre marinai furono accolti con calore, il re Umberto I li ricevette anche nella villa Reale di Monza. Per loro ci furono banchetti, applausi, un bravo e nulla più. Il cilentano riuscì a consegnare l’abum a Garibaldi, poi fece una salto a Marina di Camerota per ricevere una medaglia d’oro ed un anno dopo tornò a Montevideo. Anche Grassoni riprese la via dell’emigrazione. Il capitano Fondacaro, invece, prima di scomparire nell’oceano nel corso di un’altra travesata, pubblicò i diari di bordo col racconto esatto dell’avventura.
Non dovrebbe essere difficile individuare il nome , buona ricerca vass
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